Mamma mia che nottata! Non ne posso più, questa sarà la quarta volta che mi alzo per andare in bagno.
«Giuro! Domani vado a fare le analisi» mi dico ad alta voce facendo i conti del tempo passato dalle ultime. Come minimo, quattro o cinque anni.
E se poi ci fosse qualcosa di strano? Non so perché quando penso a queste cose, mi vengono in mente le parole di una canzone di Sergio Caputo:
«Dal dottore non voglio andare perchè non voglio smettere di bere e di fumare».
Mi sa tanto che: domani niente analisi.
Ormai sono trascorsi sette anni da quando sono andato via da casa; dopo di allora sono passato da una convivenza all’altra mettendoci in fondo molta passione ma poco amore.
Tre mesi fa ho detto basta. Vivere da solo mi è apparso come una liberazione…un sogno, dopotutto quando arrivi a cinquantacinque anni, non sopporti più nemmeno la tua immagine riflessa nello specchio figuriamoci una donna che gironzola per casa. Così dopo uno studio accurato, avevo deciso di trasferirmi in un piccolo paese mettendo insieme studio e abitazione.
La cosa m’ispirava molto, perché il momento dello studio per un progetto richiede concentrazione e tranquillità, e nello studio di Roma non riesco mai a trovare, né l’una né l’altra.
Adesso vivo da solo e mi sento bene; è solo il mangiare che mi da ancora qualche problema.
Teresina
«Signor Nico! Signor Nico si svegli! Non si sente bene?».
«Oddio! Che ore sono?» le dico cercando la sveglia, la guardo sconfortato: è tardissimo «Per la miseria non ho sentito la sveglia, questa notte non ho chiuso occhio».
Teresina mi aiuta a gestire la casa. Un po’ mi sento adottato da lei, e a volte mi vizia portandomi dei dolci fatti da lei.
Dopo la morte del marito era rimasta sola e a parte le galline, non aveva da pensare a nessun altro essere vivente, per cui, quando le ho chiesto se la sentisse di avere cura di un single negato per le faccende di casa, aveva accettato volentieri.
Teresina è quella classica donna di paese che tutti si aspettano: settanta cinque anni portati bene, un pochino grassottella e un viso che esprime sincerità e gioia di vivere.
Dopo avermi gettato dal letto ricomincia il solito tormentone sul letto dove dormo e che a quelli come me dovrebbero dargli una zappa in mano e costringerli a zappare fino a quando avessero compreso il vero senso della vita.
Non posso certo dare torto alla Teresina che il letto dove dormo sia il parto cerebrale di quello che io definisco tecnicamente un’archicazzata.
Le persone normali se devono pensare al letto vanno in un negozio di mobili ne guardano cento tipi diversi, lo scelgono, lo comprano e se gli va bene ci dormiranno sereni e tranquilli per vent’anni; procedure queste che per un architetto sono strampalate e fuori da ogni logica ed quindi ecco il lampo di genio:
«Il letto me lo faccio come dico io, e deve essere unico come quello di Ulisse».
Per essere unico è unico, su questo non si può essere che d’accordo, e anche geniale per la doppia funzione che svolge.
Utilizzare la camera da letto anche come luogo dove soggiornare, significava eliminare il letto quando non serviva senza però ricorrere a letti a scomparsa tipo poltrone o divani letto. Un amico velaio ha realizzato un’amaca di due metri per due metri e mezzo, utilizzando la rete per i catamarani che andava poi fissata al muro con quattro ganci ammortizzati con i molloni per l’ormeggio delle barche, il tutto messo in tiro da due verricelli nautici.
Il letto quando non serve, è addossato alla parete con l’aspetto di un arazzo con tutte le coperte e lenzuola dentro, mentre il pavimento della camera invece è totalmente libero da mobili e coperto di tappeti e cuscini, come se fosse una casa di un beduino. È un ambiente molto rilassante per vedere la televisione e adatto per passare una serata disimpegnata con gli amici…già gli amici! Il problema vero è proprio questo…io non ho amici.
Quando avevo dato un taglio netto alla mia vita, dopo il definitivo divorzio da mia moglie e dopo le varie storie successive, sentivo assoluto bisogno di troncare tutti i legami con il mio ambiente, dai soliti amici, che dovevano sempre barcamenarsi nell’invitare mia moglie o le mie compagne o me, cercando mille scuse per non farci incontrare, insomma una situazione insostenibile per tutti.
Il mio ragionamento è stato tanto ovvio quanto superficiale: me ne sto da solo, scopo quando mi pare e con chi mi pare e non voglio rotture di coglioni, e per mettere in pratica questo mia demenzialità razionalmente progettata, ho deciso di venire ad abitare a Calcata un piccolo, anzi piccolissimo paese tra le province di Roma e Viterbo.
La storia recente di Calcata risale a circa quaranta o forse cinquanta anni fa: dichiarato totalmente pericolante fu sgomberato e tutti gli abitanti furono trasferiti nel nuovo paese costruito a nemmeno cinquecento metri dal vecchio.
L’antico paese che nel frattempo aveva deciso di non crollare, piano piano si è ripopolato di una nuova categoria di abitanti un po’ stravaganti, un po’ artisti, un po’ hippy, insomma un po’ tante cose legate da una certa condivisione per una vita non convenzionale.
Con tutti ci salutiamo e ci rivolgiamo qualche battuta, s’intuisce una voglia di un rapporto che però non decolla mai, forse sono io che non riesco a scrollarmi di dosso quel senso di riservatezza che mi impedisce di fare il primo passo…mi considerano uno di loro, però ognuno preferisce mantenere la propria distanza di sicurezza.
Teresina intanto ha terminato il suo lavoro e come al solito mi ripete le solite raccomandazioni che io puntualmente le anticipo, lei ci scherza sopra e la cosa, si vede, le fa piacere; comunque prima di uscire mi dice:
«Perché giovedì sera non viene da Temistocle che apre la botte del vino nuovo, io preparo una cenetta con tutta roba nostra, ci farebbe piacere».
«Sai che ti dico?, ci vengo volentieri» le dico di slancio «passo io a prenderti, dimmi solo quello che debbo portare, magari compro un dolce».
«Ma non ci pensi nemmeno!» esclama la Teresina quasi scandalizzata «a parte che quelli ci hanno tutti il diabete, lei non deve portare nulla porti se stesso e sarà la cosa che renderà tutti felici e non pensi nemmeno a bottiglie di nessun genere perché Temistocle è il re della grappa e quindi guai se qualcuno gli presenta un liquore compro».
Sulle scale si volta e guardandomi seria…
«E’ tutta gente semplice, non faccia il sofisticato, ciao signor Nico, ci vediamo giovedì».
Temistocle e compagni
Quando sono nella fase d’ideazione tutto l’ambiente che mi circonda è invaso dai miei appunti, schizzi, riviste di architettura, manuali tecnici…insomma è tutto un casino e non voglio che Teresina lo veda.
La casa-studio non è grandissima, è composta da una stanza grande in cui ho disposto un tavolo di due metri per tre con tante sedie intorno che lasciano solo un minimo spazio per girarci intorno.
Sul tavolo ho organizzato tutti i miei computer e su il quale praticamente vivo ed a volte, anzi, molto spesso mangio; la stanza da letto che si trasforma in spazio living, un’altra piccola stanza in cui ho collocato le stampanti, il plotter e vari altri attrezzi come taglierine, rilegatrici. Infine il bagno e un piccolo angolo cottura dove smanetto alla grande con il microonde e con tutto il resto faccio solo il caffè.
Tutto l’ambiente è coperto da uno stupendo soffitto antico di travi di legno e tavelle in cotto…una vera gioia per gli occhi ma soprattutto per lo spirito.
La casa è disposta proprio sulla piazzetta, di fianco alla chiesetta. Quando mi capita di sedermi sulle scale per leggere il giornale è un continuo rispondere ai saluti della gente, senza contare poi i turisti del weekend che si aggirano per il borgo alla ricerca di chissà cosa.
Teresina mi sorprende in questa opera di messa in ordine:
«Ma la vuole smettere di lavorare, sempre a smanettare su ‘sti cosi a cecasse l’occhi, via via! Che se no non faccio in tempo a fare l’abbacchio alla cacciatora.»
«Dammi il tempo di prendere le chiavi della macchina e arrivo, sei proprio sicura che non faccio brutte figure a presentarmi senza niente?»
«Dai che è tardi e quelli se mangiano tardi diventano strani».
Temistocle abita in un vecchio casale in pietra poco fuori del paese su un terreno datogli dal comune come risarcimento per la morte del padre caduto al fronte durante la prima guerra mondiale.
Non si era mai sposato e aveva sempre vissuto in famiglia, adesso era rimasto solo, ed il suo tempo lo dedica alla campagna e alle bestie che alleva.
La costruzione è estremamente semplice ma non priva di fascino per il fatto di avere murati sulle pareti esterne alcuni frammenti marmorei di epoca romana rinvenuti chissà dove.
Tutto lo spazio circostante alla casa, è ingombro di mille cose buttate qua e là, come fasci di canne per i pomodori, botti ormai sdogate e mezze marcite, cataste di legna di vari anni coperte d’edera e d’erbacce, mezzi agricoli ormai in disuso e arrugginiti e naturalmente non poteva mancare la solita carcassa di una cosa che una volta era un’automobile e che adesso fa da casa per i cani.
La campagna è un insieme caotico, le piante sono disposte secondo lo spazio che in quel momento era disponibile ed allora ci sono piante da frutta come pruni o meli in mezzo agli olivi oppure piante d’insalata, di finocchi, di zucchine, carciofi ed altri tipi di ortaggi piantati dove capita senza curarsi del fastidio che possono creare alla gestione delle altre coltivazioni come le piante di fico in mezzo ai filari della vigna…ecco è proprio la vigna la sua ragione di vita, la cura in una maniera quasi maniacale; non è certo un capolavoro di ordine come quelle che si vedono in televisione tutte precise e ordinate, la vigna di Temistocle alternava viti disposte in filari con pergolate sorrette da pali mezzi sgangherati e continuamente rinforzati con fil di ferro; ma nonostante l’aspetto scapigliato il vino è superbo e poi anche se qualche volta veniva così così c’era sempre il fatto che comunque era fatto di uva e quindi non faceva male, non come quello imbottigliato, che chissà con che cosa lo fanno.
La sua vera passione, però, sono la grappa e il cognac. Temistocle distilla di tutto, dalle vinacce alla frutta e naturalmente il vino. Della grappa conosce tutti i segreti e per questo é famoso in tutto il paese, tant’è che quando è tempo di vendemmia è una gara per portargli sacchi di vinaccia che lui cataloga con il nome del proprietario. Per cui c’era la grappa di ‘Rfonzino, la grappa di ‘Nnibbale, la grappa di Pippetta e così via. Lo stesso succede con il vino che distilla per fare l’acquavite con cui fa i liquori più strani, alcuni di vecchia tradizione come il nocino o il rosolio, altri a suo estro con risultati a volte buoni altre volte scarsi. Altro discorso invece è il cognac, di cui è un vero esperto essendo stato per alcuni anni emigrante in Francia proprio nello stabilimento di produzione del famoso cognac Armagnac. La malattia che aveva colpito la mamma l’aveva costretto a tornare a casa per starle vicino...
Appena oltrepassato il cancello del podere lo vediamo venirci incontro con una faccia gioiosa.
«Saluto a lorsignori!» … rivolto a me con la mano tesa: «Piacere Temistocle e qui sei il padrone.»
«Nicodemo, però per gli amici solo Nico, Teresina mi ha tanto parlato di lei, scusa, di te che non vedevo l’ora di conoscerti.»
«Ti ringrazio, si vede che sei una persona gentile e sicuramente anche di gusti buoni e qui bisogna essere delle persone di mondo per apprezzare certe cose.»
«Ma io so che tu hai dei tesori nascosti che fai assaggiare solo a chi dici tu.»
Dico io con la faccia di chi conosce chissà quali segreti e brandendo il dito indice:
«Perché non mi porta a vedere la sua cantina di cui è tanto geloso?»
Nel frattempo Teresina aveva scaricato tutto l’occorrente per cucinare e rivolti a noi due:
«Voi due fate quello che volete, basta che non mi state tra le scatole, quando cucino non voglio nessuno intorno e lo dico specialmente a te», rivolta a Temistocle, «Che se ti presenti con un pezzo di pane a intingere il sugo ti taglio la mano.»
«Teresì, noi andiamo in cantina; fammi il piacere che mano mano che vengono gli altri ce li mandi giù?»
Gli Etruschi, sono famosi per essere stati degli instancabili scavatori e qui siamo nel cuore dell’antica Narce e i discendenti di quell’antico popolo non hanno fatto altro che continuare a perforare il banco di tufo come topi nel formaggio.
Le cantine hanno un po’ tutte la stessa struttura; un cunicolo lungo e stretto che porta ad un vano tondeggiante che si apre alla fine anche sino a venti metri di profondità sottoterra.
Scendere in queste cantine dà la stessa sensazione di fare il percorso inverso della nascita e veramente si ha lo stato d’animo di essere nel ventre della Terra, ci si sente avvolti da una temperatura che secondo la stagione è calda o fresca che ti mette addosso una serenità quasi ascetica.
«Nico!... tieni la testa bassa sinnò ti riempi i capelli di ragnatele…attento qui che si scivola un po’…mio nonno cià messo tre anni a scavarla…con il solo piccone…ma è asciutta e la temperatura è sempre la stessa…d’estate e d’inverno.»
Temistocle ha il fiatone mentre mi illustra il suo mondo in cui si muove con un’agilità sorprendente nonostante la mole e l’età. Stando a testa bassa non mi rendo conto di quando siamo scesi in profondità; guardando verso l’uscita mi sono reso ben conto di quanto effettivamente siamo in basso.
Il vano, non grandissimo, all’incirca di tre metri per quattro, è completamente ingombro di botti, botticelle e damigiane di tutti i tipi, mentre nelle pareti sono ricavate delle nicchie tipo colombari etruschi, dove sono disposte coricate bottiglie e fiaschi di varia foggia, il tutto coperto da ragnatele e muffe che danno a tutto l’insieme un aspetto stregonesco.
La cosa che mi ha sempre colpito nelle case dei contadini è il basso vattaggio delle lampadine; gli ambienti sono quasi sempre illuminati il minimo indispensabile per poter discernere l’ambiente dove muoversi e la cantina di Temistocle segue questa regola, illuminata da una lampadina non più forte di quella che si usa nei cimiteri. Gli occhi farfugliano un po’ cercando di abituarsi a quella luminella.
Il tavolo, posto strategicamente accanto alla botte e a portata di mano della cavola del vino, consiste in un bigoncio di legno capovolto e le sedie sono delle cassette per la frutta messe in verticale disposte a semicerchio.
«Adesso ti faccio assaggiare un Cognac di trent’anni fa, ormai è quasi finito ma l’occasione è quella giusta per dargli l’ultimo saluto e quando vengono gli altri…ciccia!...ne apriamo un’altra bottiglia alla salute di noantri.»
Temistocle è visibilmente orgoglioso della sua creatura e mentre mi versa con cura sacerdotale l’ultima scolatura della bottiglia mi spiega il trucco per fare il vero cognac.
«Quando il mosto ha finito di fermentare è quello il momento di iniziare la distillazione e questa è la prima, la seconda devi saper scegliere la testa e la coda da eliminare perché contengono troppa aldeide che rovinerebbe il gusto e terza, la più importante sono le botticelle di rovere che devono essere sempre impregnate di cognac senza farle asciugare mai come si fa con l’aceto balsamico a Modena e quarta dimenticati di averlo fatto e lascialo in pace per anni e anni.»
Io non sono certo un grande intenditore né di vino né di liquori, però so riconoscere quello buono da quello che fa schifo e quel liquore è effettivamente ottimo, però da me Temistocle si aspetta un giudizio che sia appagante:
«Veramente pregevole, bel colore muschiato alto grado di tannino, gusto rotondo e morbido, complimenti è un prodotto perfetto, non c’è che dire; mai uno si aspetterebbe di trovare in questi luoghi un esperto di liquori così bravo.»
Ho svuotato tutto il mio repertorio di terminologie enologiche imparate dalle tante trasmissioni in televisione, ma per Temistocle sono bastate per farmi assumere l’aura di sommelier, e gli occhi che gli brillano mi danno la certezza di averlo fatto felice.
«Mus non uno fidit antro! …Quali e quanti umani sono stati presi in trappola in questo luogo d’inebrianti perdizioni?»
Il fine dicitore di queste dotte parole è tale Giuseppe Donati detto Peppe, professore di lettere ormai in pensione, vestito come se dovesse sempre andare a caccia con un berretto tipo militare che copre una pelatina che però lascia intravedere il colore fulvo dei capelli, il pizzetto e gli occhi grigi penetranti gli danno un piglio di altri tempi.
«Oh! Finalmente abbiamo una faccia nuova e prima di conoscere il suo patronimico tastiamo la profondità del suo essere se è in grado di spiegare ciò che ho detto al buon Temistocle.»
«Il buon Temistocle deve sapere», dico io, «che i topi sono più intelligenti degli umani perché quando scavano la tana fanno sempre due uscite, la traduzione letterale è: il topo non si fida di un solo buco.»
«Accidenti questa volta abbiamo a che fare con un uomo colto, quindi debbo stare attento alle stronzate che dico.»
E Temistocle ad entrambi:
«Bando alle chiacchiere, Nico lui è Peppe e non farti coinvolgere dalle sue chiacchiere sennò t’interroga come quando eri a scuola».
Mentre siamo intenti ad assaggiare questo e quello ci raggiungono altri tre amici, tutti chi più chi meno intorno intorno alla settantina, sembriamo Pacciani con tutti i compagni di merenda, a quel punto il valzer dei bicchieri diventa frenetico, anche perché Linetto aveva messo sul tavolo una mezza formetta di pecorino e una pagnotta di pane casereccio, mentre Lillo aveva letteralmente sbattuto sul bigoncio, come quando si gioca a tresette quando di dice “busso!” una lonza di quelle caserecce fatte da lui incartate con la carta paglia e legate con lo spago di canapa, mentre Gustinetto, un furetto non più alto di un metro e mezzo si toglie dal collo una collana di salsiccette di cinghiale.
Mi sono reso conto di non essere attrezzato alla contesa perché tutti sono provvisti di coltello, Giuseppe ne aveva due e me ne presta uno dicendo:
«Il coltello in campagna è un po’ come una seconda mano, ci fai la cicoria o ci tagli uno spago, ti serve per gli innesti o per sbucciare un frutto, non puoi farne a meno.»
L’ultimo ad arrivare è Octaviano, un cinquantenne rumeno regolare che vive in Italia ormai da quindici anni; grande lavoratore, in campagna sa fare ogni tipo di lavoro ed aiuta spesso Temistocle nei lavori più pesanti. Figura slanciata e asciutta in modo invidiabile, aveva lasciato in patria un figlio che faceva la carriera militare e una moglie sposata da poco in seconde nozze.
«Teresina mi ha detto di dire che fra dieci minuti potete salire che è quasi pronto, però un pezzo di pecorino di Linetto bisogna mangiarlo, Temistocle versa vino e salute a tutti!»
Ninni e gli altri
Guardo la moka con entrambe le mani appoggiate sulla macchina del gas. I pensieri vagano nelle nebbie di un risveglio non propriamente perfetto; i postumi della cena di ieri sera fanno sentire ancora pesantemente i loro effetti.
Mi verso lentamente il caffè, metto due cucchiaini di zucchero. Giro il cucchiaino con lo sguardo perso nel vuoto. Non riesco a pensare ad altro che in fondo ieri sera, quella cena era stata per me come se fossi andato a teatro. Temistocle, Teresina, Linetto, erano sei personaggi in cerca di uno spettatore; perché io in effetti, non ho fatto altro. Non avevo storie particolari da raccontare, neppure un aneddoto di seconda mano, non avevo personaggi buffi da incorniciare o episodi di vita paesana da cui partire con riflessioni su com’eravamo diversi cinquanta o sessant’anni fa.
E’ indubbio che la vita nei piccoli paesi, specialmente se contadini, sia piena di tanti e tanti episodi che diventano poi passando di bocca in bocca dei ricordi quasi fiabeschi.
Temistocle, con la sua arguzia e esibendo una mimica da attore consumato, raccontava degli episodi di vita paesana in un modo tanto recitato da farsi venire le lacrime dal gran ridere.
Non c’è dubbio, ieri sera mi sono proprio divertito. Forse sarà stato merito del vino e della grappa, ma la serata era stata veramente entusiasmante, ma che comunque è una cosa da prendere solo in piccole dosi.
Oggi è il mio compleanno e ancora non ho capito se ho voglia di festeggiarlo oppure lasciarlo scorrere via senza che lasci traccia. Faccio cose di piccolo cabotaggio, non ho la testa per fare lavori impegnativi, quindi ne approfitto per fare cose di routine che non prevedono grande concentrazione.
In questi casi la testa va un po’ dove gli pare e qualche volta se lasci le briglie sciolte magari imbrocca pure la strada giusta.
Come dice il proverbio? Se Maometto non va alla montagna ecc. ecc., se la cosa va, và e, se non và, ‘sti cazzi’, mi dico quasi ad alta voce. La decisione è presa, si tratta ora di organizzare la cosa con un minimo di gusto. Inizio a fare l’inventario delle cose che mi occorrono, per prima cosa un tavolino piccolo. Nel ripostiglio ce n’è uno di quelli tipo osteria di una volta, pieghevole e con il piano in doghe di legno, poi mi occorre una tovaglietta semplice non leziosa, una buona quantità di bicchieri di carta piccoli e grandi e da bere, vediamo la dispensa in che consiste.
Abbiamo una bottiglia di grappa di Temistocle, una di vodka intonsa perché non mi piace, poi una decina di bottiglie di birra di marche assortite, una bottiglia di spumante e una di prosecco, una confezione di salatini e una d’arachidi salate che sono fatte apposta per fare venire sete e poi … basta! Che dico basta manca la cosa principale: il biglietto! Dopo mezz’ora il parto è avvenuto; il biglietto, vergato rigorosamente a mano, riporta la seguente frase:
«Oggi è il mio compleanno, sarò felice se berrete alla mia salute. Nico»
Alle sei del pomeriggio porto tutto in piazzetta, evito di guardare la gente per non morire di vergogna, apparecchio il tavolino con cura anche pur mettendoci il minor tempo possibile e infine dopo aver posizionato il biglietto in bella mostra salgo velocemente le scale e mi chiudo la porta dietro.
Adesso mi sento un po’ come un marito che tradisce la moglie, prima ha il desiderio che lo attanaglia e non gli fa capire nulla, dopo arriva puntuale il pentimento, e così mi sento in questo momento.
«Nicoooo! Nicoooo! Ah Nico voi uscì fori?» un vociare fuori mi spinge ad affacciarmi sull’uscio di casa.
«Dai scendi che dobbiamo brindare alla tua salute!».
Sono un gruppetto di persone che con il bicchiere levato in alto cominciano a cantare l’odiato Happy Birday ed io come un cretino, ma in fondo felice scendo le scale come Wanda Osiris.
Il gruppetto è variamente assortito, le età potevano variare dai trenta ai cinquanta ma da come sono vestiti tanto normali non devonoo essere; specialmente le donne che sembrano provenire da un suk indiano e la ricerca di essere originali a tutti i costi decisamente sfocia nel cattivo gusto, ma tant’è!
«Le presentazioni le faccio io!», esclama Ninni, un ex ragazzo con una decisa somiglianza con l’attore Giancarlo Giannini, forse mio coetaneo che indossa una salopette tutta imbrattata di colori, «Lui è Mino e fa dei tatuaggi da paura; lei è Gisa e ha un negozio di chincaglierie e antiquariato sotto l’arco all’ingresso del paese; lui è Massimo grande illustratore della Newton&Copton; lei è Anne Françoise belga e pittrice esoterica; lei invece è Maresa e ha il ristorante vegetariano che incontri appena arrivi al paese; loro due sono Dario e Luana sono impiegati della ASL e infine lei è Carmen e fa la grafica pubblicitaria, e questa è tutta la compagnia. Ah no! Manco io, mi chiamo Ninni, faccio ceramica artistica e dipingo. Adesso a lei le presentazioni».
«Il mio nome già lo sapete, sono architetto, ho la passione per la vela, e a un certo punto della mia vita ho deciso di mandare tutti a quel paese e cambiare ambiente e ho scelto Calcata perché è paese che non ha nulla di un paese normale», e indicando il gruppetto, «compresa la gente che lo abita».
Seduti sulle scale di casa, senza che ce ne fossimo accorti ci siamo salutati che erano le due dopo mezzanotte.
Quando mi sono chiuso la porta dietro le spalle sentivo ancora addosso l’eccitazione per quell’incontro e per la certezza di aver trovato finalmente dei nuovi amici.
Sdraiato sul letto non riesco a prendere sonno e ripensavo ad ognuno di loro cercando di evidenziarne i tratti che mi avevano colpito. Massimo mi aveva molto impressionato; aveva una cultura incredibile e conosceva i più grandi storici e architetti mondiali. Si era sposato addirittura tre volte e tre volte aveva divorziato ma la sua vera tragedia non era tanto questa, che comunque l’aveva ridotto sul lastrico, quando quella di essersi licenziato dalla Newton&Copton perché non aveva voluto convertirsi al computer, cosa inevitabile per una casa editrice. Adesso vive con una pensioncina da fame e divide l’affitto di un piccolo appartamentino con Carmen. Ah dimenticavo! Anche lui ha la passione per la vela, tanto da fare l’istruttore nel periodo estivo sul lago di Vico.
Carmen
Mi sono svegliato presto, impaziente e agitato al tempo stesso. Il paese d’un tratto ha cambiato il suo aspetto, perché adesso, sento finalmente di farne parte.
Decido per la prima volta di andare a fare colazione alla sala da tè che si trova proprio di fronte alla mia abitazione. L’ambiente è lezioso, arredato con gusto anche se con cose di scarso pregio; la signorina con garbo mi versa una miscela di tè tailandese in un bolo molto carino che accompagna con un piattino con dei pasticcini.
La mattina non riesco a mangiare nulla, ma oggi è un giorno particolare e mi sento affamato. Mi sono seduto dando le spalle alla porta d’ingresso per cui non mi sono accorto di Carmen:
«Guarda guarda chi si vede!», esclama sedendosi di fronte a me, «Anche oggi ho trovato chi mi paga la colazione. Che mi offri?».
La signorina della sala da tè mentre prende l’ordinazione mi mette in guardia:
«Lei non sa a cosa va incontro offrendole la colazione perché la bella Carmen, sta a dieta solo quando paga lei».
Purtroppo aveva ragione.
«Dimmi la verità, ti sei rintanato a Calcata perché stai fuggendo, altro che le cazzate della solitudine del progettista, come gli scrittori che hanno bisogno dell’isolamento per creare, io dico che c’è una donna da cui fuggi e sono sicura di non sbagliare, l’intuito femminile non si inganna mai».
Mentre mi dice queste cose, Carmen mi radiografa con degli occhi di un grigio trasparente di una bellezza di cui solo adesso mi accorgo.
Carmen nel complesso è un ragazza stupenda, ha trenta anni e un corpo alto e slanciato, un bel viso pieno di lentiggini incorniciato da lunghi capelli rossi che le scendono sulle spalle in una cascata disordinata ma nel contempo intrigante; anche se è maggio indossa un vecchio maglione, anche se leggero, di cachemire con una V pronunciata che fa intuire un seno lasciato libero, che accompagnando i movimenti della proprietaria, crea delle oscillazioni e dei sobbalzi che fanno impazzire gli ormoni; l’unico neo di tanta bellezza è una igiene non proprio al massimo.
«Sotto molti punti di vista in effetti sto fuggendo, ma alla mia età, una donna non ti sconvolge la vita tanto da troncare con tutto il mondo, la verità è che avevo bisogno di aria nuova, di nuovi stimoli per me e per la mia professione, avevo bisogno di conoscere gente nuova, vedi, è un po’ come quando sei in dirittura di arrivo con un lavoro, quello ormai va da solo, è come se non avesse più bisogno di te e allora cominci a pensare ad un altro progetto, su quello ti concentri e quell’altro non ti interessa più, è storia passata. Ecco adesso sto vivendo un nuovo progetto e voi, spero che ne facciate parte».
Evidentemente ho detto queste cose con tale convinzione tanto da lasciare Carmen per un momento pensierosa.
«Per certi versi ti capisco, in fondo anche io ho fatto punto e a capo con la mia vita. Io sono di Roma e ho sempre vissuto al centro in via del Vantaggio…sai una traversa del Corso?, poi lo stabile dove avevo sempre vissuto con la mia famiglia è stato acquistato da una finanziaria e io mi sono ritrovata con uno sfratto esecutivo» alterna le parole ad un sorso di tè o un morso ad un pasticcino «Giocoforza ho dovuto ricominciare da zero a Calcata, adesso devo dire che è stata una fortuna per tutto, tranne che per il lavoro, non sempre riesco a trovarne a sufficienza per fare il mese e poi ti pagano sempre meno, oltre tutto ieri mi si rotto pure il computer e devo consegnare un lavoro urgente».
«Se è per questo io posso mettertene a disposizione uno sia Mac che PC».
«Sarebbe una salvezza mi basta solo che ci sia installato Photoshop e se non ce l’hai XPress me lo installo io, non ti preoccupare non è una copia pirata».
I programmi sono installati entrambi nel computer e così ci siamo dati appuntamento a casa mia non più tardi di mezzora.
Mentre finisco il mio tè che ormai è diventato un tè freddo rifletto all’idea di lavorare con una donna accanto e la cosa mi fa venire in mente altri casini con altre donne ma in fondo erano altre epoche.
«Oh! Sai che ti dico? Ti sei organizzato proprio bene» esclama Carmen appena entrata in casa «Stereo, televisione da quaranta pollici, tanti DVD. Ma che sono tutti film vecchi? Porca miseria pure Casablanca. Nooh! Questo me lo devi far vedere».
Carmen sembra una ragazzina la notte di Natale quando deve scartare i regali, è sorpresa da tutto, dai miei libri, dai miei progetti, dai miei soprammobili, dall’illuminazione molto focalizzata che dà all’ambiente un’atmosfera da night club, dai miei bastoni, ma il bello deve ancora vederlo.
Gira per le stanze e si eccita alla visione delle stampanti e del plotter e con le mani giunte mi prega:
«Ti prego ti prego, dimmi che mi fai stampare una locandina a grandezza naturale! Mi faresti guadagnare un giorno e mi eviteresti di andare a Roma per stamparla, dimmi di sì, dai!».
Naturalmente non potevo che dirle di sì. Lei mi abbraccia per la gioia e mi dà un bacetto sulla guancia.
«Cazzo! Non sarai mica musulmano? Questa stanza è un’alcova bella e buona», disse entrando nella stanza da letto, «Fammi capire una cosa, ma dove dormi?, io fino adesso non ho visto nessun letto e la casa l’ho girata tutta».
Dopo averla rassicurata sulla mia fede religiosa le ho mostrato come quella specie di arazzo che era addossato alla parete si trasformasse in un letto.
«Non ci posso credere! E’ una cosa stupenda! Lo posso provare? Ma le regge due persone? Accidenti ma lo sai che è proprio comodo ed è pure molleggiato! Nico vieni pure tu dai fammi vedere come ci si sta in due!»
Effettivamente la prova per vedere come ci si stesse in due non l’avevo mai fatta e quindi non so se il sistema avesse retto.
Con grande cautela mi siedo e poi mi sdraio cercando di capire se si udissero dei segni premonitori di eventuali cedimenti, il dubbio si è dissolto quando Carmen si è messa a saltarci sopra, meglio così.
Sono molto soddisfatto della mia creatura e non la chiamerò più archicazzata.
Finalmente decidiamo che è ora di lavorare; lei controlla il computer e che tutti i parametri che le servono fossero presenti, fortunatamente non trova problemi per continuare il suo lavoro e ognuno di noi entra nel suo mondo isolandosi da tutto il resto.
Quando progetto ho bisogno ogni tanto di staccare per capire quale potrebbe essere la soluzione migliore per un problema ed allora mi alzo e meccanicamente o mi faccio un caffè o mi mangio qualcosa oppure come adesso mi affaccio alla finestra e guardo la gente che passa.
«Ehi Nico!» mi chiama Maresa dalla piazza.
«Maresa scusa stavo soprapensiero, non ti avevo vista, dove vai di bello?».
«Sto andando al ristorante, senti perché oggi non vieni, abbiamo in mente un piatto che dovrebbe essere una cosa favolosa e ci tengo al tuo giudizio».
Carmen che ha sentito tutta la conversazione mi salta sulle spalle per affacciarsi anche lei e le urla a squarciagola:
«Certo che veniamo! Contaci io ho già fame, ciao ci vediamo dopo!» e fugge via per tornare al computer.
Maresa
Il ristorante era stato ricavato all’interno di una grotta riadattando una cantina che si affacciava sulle forre del fiume Treja. La prima impressione è stata come di entrare dentro la chiesa della “Sagrada Familia” di Gaudì a Barcellona, tanto è piena di mosaici colorati e di affreschi allegorici. Su una bacheca all’ingresso, c’è in bella vista un foglio fatto a pergamena, con gli oroscopi del giorno fatti da Fox e vergati a mano in bella calligrafia, il tutto molto bello ed elegante.
Maresa ci viene incontro con un’aria allegra:
«Vedo che voi due avete fatto presto a fare amicizia!» e indicandoci un tavolo «Mettetevi seduti qui così vi controllo meglio».
Carmen rapidamente spiega a Maresa il motivo del nostro rapporto, ma lo dice con un tono tanto equivoco, tale da fare immaginare alla sua amica qualsiasi cosa.
Aspettando di sapere quello che ci sarebbe toccato di mangiare chiedo a Carmen di parlarmi della sua amica.
«Maresa è quella che si dice, una figlia di papà. Fin da ragazza è stata un tipo ribelle, tanto che un giorno conosciuto un ragazzo più scemo di lei, partono per l’India senza dire niente a nessuno. I genitori l’hanno cercata per mesi fino a quando un amico gli dice di averla incontrata a Bombey in uno stato pietoso, tanto che sembrava una barbona e sicuramente anche drogata. A quel punto il padre parte, la trova e se la riporta a casa. Comincia a fare la pittrice, con scarsi successi, fintanto che un amico che viveva a Calcata le dice se voleva aprire con lui un ristorante vegetariano un po’ esotico tipo indiano. E questa è tutta la storia».
Maresa è una donna sulla cinquantina, ma con un carattere di una ventenne. Non aveva mai voluto sposarsi anche se di uomini ne aveva macinati parecchi. Piccolina, capelli sale e pepe quasi a spazzola, grandi occhiali e nell’insieme una faccia da impunita ma con il sorriso sempre sulle labbra. L’unico difetto è la pelle del viso rovinata da un’acne giovanile, decisamente virulenta.
«Il locale mi piace molto», confido a Carmen, «specialmente quei dipinti alle pareti sono veramente ben fatti, la mano del pittore è veramente pregevole».
Mentre giro con gli occhi in tutte le direzioni cercando di vedere altre pitture Carmen mi sussurra accostandosi a me:
«L’autore delle pitture lo hai conosciuto, vediamo se indovini chi è?».
«Ripensando a ieri sera chi faceva l’artista era Ninni, Mino, Anne Francoise e adesso ci metto pure Maresa, ma tutti e quattro non hanno la cultura adatta per realizzare opere così pregevoli, a questo punto non so proprio a chi pensare. Non dirmi che è proprio Massimo?».
«E invece è proprio lui» annuendo con la testa «e lo sai che cosa ci guadagna? Il pranzo. E se qualcuno gli dice qualcosa sa cosa ti risponde? Pure Van Gogh ha dipinto per mangiare, lo scambio con il cibo è il migliore pagamento che un artista possa ricevere, perché l’arte in questo modo torna alla sua funzione primordiale e non viene sporcata dal danaro»
«Visto che ci sei toglimi un’altra curiosità, come mai tu e Massimo avete deciso di vivere insieme e da quello che mi pare di aver capito non state insieme?», forse la domanda è stata troppo diretta e sicuramente inaspettata tanto che Carmen è diventata d’un tratto seria.
«Ne possiamo parlare un’altra volta? Adesso ho solo voglia di mangiare e stare allegra».
Chiuso il discorso capisco che se fosse stato il caso sarebbe stato lei a riaprirlo.
«Tu hai qualcosa contro i vegetariani?», mi fa Maresa puntandomi l’indice in mezzo agli occhi.
«Tutt’altro» le rispondo, «Se mi metti davanti una fiorentina e un carciofo alla giudia scelgo sicuramente il carciofo, non sono stato mai un mangiatore né di carne e né di pesce, ma la mia è solo una scelta di gusto; se devo fare filosofia sicuramente la faccio con la testa, non certo con lo stomaco».
«Ah! Ah! Abbiamo un osso duro, ma sono sicuro che quando mangerai le cose che ho preparato cambierai idea».
Mi minaccia Maresa ritornando in cucina. «Vedi», rivolgendomi a Carmen «Ognuno è libero di farsi male da solo o di credere in quello che gli pare, la cosa che non sopporto è il volere convertire gli altri alle proprie convinzioni. Però diciamocela tutta: una ciriola calda con la porchetta appena fatta con la crosta croccante per me è cento volte meglio di una scopata. Scusa il termine ma quando ce vò ce vò!».
Carmen si china verso di me e mettendosi una mano a fianco della bocca mi sussurra:
«Io la penso come te, ma se vogliamo mangiare non ci mettiamo a discutere di filosofia se no facciamo notte».
Al sopraggiungere di Maresa Carmen si rimette dritta sulla sedia e guardando nel piatto che le ha messo davanti.
«Che è?» esclama.
«Cantaloupe soup» dice Maresa didascalica, «Si tratta di una ricetta molto particolare con un gusto delicatissimo che ben si adatta anche ai miscredenti».
Si gira con una sorta di piroetta e fa per andarsene quando la placco per la vita e alzandomi l’abbraccio:
«Io m’impegno a diventare vegetariano se tu saprai intrigarmi solo con i tuoi piatti senza mettere in mezzo la filosofia o la religione», e porgendole la mano, «Pace fatta?».
«Pace fatta», mi stringe la mano e mi da un bacio sulla guancia.
«Ma che è, aspetta come ha detto che non mi ricordo: cantalupo?» dice Carmen sottovoce, «Certo che sei un gran paraculo, se non facevi pace, mi sa che non si mangiava più. Tu nemmeno t’immagini quanto sia vendicativa l’amica nostra».
Guardo la scodella che contiene una zuppa di colore di un giallo intenso con al centro uno sbaffo bianco fatto con crema wasabi su cui è adagiato un fiorellino viola, decisamente chi aveva composto il piatto deve essere un artista; mentre ammiro quell’opera d’arte mi rivolgo a Carmen dubbioso:
«Non mi ricordo che cosa significa in inglese cantaloupe, mi pare il nome di un frutto o del melone, ma non ne sono sicuro», appena assaggiata i dubbi si sono dissolti: è melone.
Il pranzo è a dir poco fenomenale, i piatti sono di una bontà straordinaria e Maresa vedendo il mio compiacimento ha riacquistato il suo solito buon umore e mi aveva perdonato del tutto.
Massimo
«Parlo con la Sistar, buongiorno potrei parlare con il titolare?...La ringrazio…Il signor Antonioni?...Buongiorno sono l’architetto Nico Roversi…La ringrazio, senta, questa mattina dovrebbe venire da lei la signorina Carmen con il lavoro che le ha commissionato, io le volevo chiedere un piacere e se mi dice di no non posso biasimarla…Lei ha stabilito con la Carmen trecento euro per il lavoro…No no non si preoccupi non ci sono difficoltà, io le chiedo solo di dargliene cinquecento, la differenza la metto io e gliela manderei con un vaglia telegrafico o se ha il banco posta gli farei un accredito sulla carta…sa lei da me non accetta nulla e rifiuta di essere aiutata, se lei la conosce bene sa quanto sia orgogliosa ed in questo momento ha veramente bisogno oltretutto le si è rotto anche il computer e sta lavorando con uno dei miei, per questo motivo conosco il suo numero», aspetto solo che il signor Antonioni mi mandi a quel paese e invece:
«Lo so che il lavoro è pagato poco le assicuro, caro architetto, che se il lavoro è fatto bene, la differenza ce la metterò io, la ragazza se lo merita», non so cosa dire, «Lei è una brava persona e l’onestà va sempre premiata; terrò presente la sua ditta per i miei lavori, ancora grazie…la saluto, buona giornata».
Mi sento soddisfatto…Soddisfatto e agitato.
Il chiedere favori mi ha sempre creato una grande agitazione e anche questa volta come al solito mi impedisce di lavorare, non avendo voglia di fare nulla, decido di andare a trovare Ninni nel suo laboratorio:
«Ninni buongiorno. Ah! Guarda un po’ chi c’è! Caro Massimo buongiorno pure a te, non ditemi che ho interrotto qualche conversazione riservata?», Ninni e Massimo quasi contemporaneamente,
«Chiamala riservata, stavamo facendo i conti di quanti soldi dovremmo avere e non c’è verso di farseli dare».
Ninni è intento al suo lavoro e Massimo gli sta dando una mano. Il laboratorio consiste in una stanza di circa tre metri per quattro totalmente ingombra di stampe di gesso, manufatti appena abbozzati, piatti in via di decorazione e varie cose finite e in mostra per essere vendute ai turisti specialmente nei weekend.
«Vedi questi, sono stemmi di Comuni, io ne faccio uno come prototipo, poi vado dal sindaco, glielo faccio vedere e se gli piace ne ordina una decina che poi regalerà agli ospiti importanti; mbeh! Non ci crederai ne avrò fatti all’incirca duecento a una decina di comuni e ancora non mi ha pagato nessuno»
Ninni è un ceramista bravissimo, in grado di fare dei lavori in cotto di una bellezza disarmante. La sua esperienza era stata sempre sfruttata da personaggi che ne avevano carpito la buona fede e le idee lasciandolo sempre a bocca asciutta: diceva che la sfortuna ce l’aveva nel DNA dato che era nato il due novembre e non si può dire che per la vita sentimentale sia andata meglio.
«La rupe è proprio qua dietro se non avete altro da fare perché non ci buttiamo tutti di sotto?», dice scherzando Massimo, «Oggi ho preso la pensione pago io, andiamo a prenderci un caffè!».
«Andate pure voi io» ci dice Ninni »non mi posso muovere perchè devo controllare il forno che ha quasi raggiunto la temperatura se no mi si rovina tutto, casomai portatemi un caffè quando tornate».
Insieme a Massimo usciamo dal laboratorio di Ninni e lentamente ci avviamo in piazza alla sala da tè.
«Carmen mi parla sempre di te; hai fatto colpo e ti assicuro che con lei non è facile», mi dice con un tono di chi pensa di dire qualcosa di sconveniente, «Carmen è una ragazza fragile che ha avuto una vita difficile», e poi mi dice serio, «Con fatica è riuscita a raggiungere un certo equilibrio e non vorrei che andasse a sbattere la testa da qualche parte».
«Vedi, caro Massimo, io mi sono rintanato a Calcata perché sto fuggendo non solo da tutto il resto del mondo ma principalmente da me stesso» gli confido aprendogli il mio cuore «fuggo dal mio modo di avere rapporti con l’altro sesso, con l’amore sia sacro che profano. Se mi viene il desiderio me lo faccio passare anche a costo di farmi una sega; io mi conosco; prima mi entusiasmo e quando la passione scema mi stufo e di conseguenza faccio del male a chi mi ha voluto bene. So di essere un bastardo e tutto quello che mi è successo mi sta bene, me lo sono cercato con il lanternino».
Massimo tace, evidentemente non si aspettava una confessione così accorata e devo dire che la cosa ha stupito anche me.
Arriviamo in silenzio alla sala da tè e ci sediamo pensierosi.
«Sicuramente ti sarai chiesto come mai io e Carmen viviamo insieme anche se non siamo compagni» mi confida sottovoce per non farsi sentire dagli occupanti del tavolo vicino «dico a tutti di essere gay ma non è vero, magari lo fossi stato, per prima cosa mi sarei risparmiato tre divorzi, purtroppo una operazione sbagliata alla prostata mi ha reso impotente e ti assicuro che la cosa è stata dura, senti il desiderio e non sai come fartelo passare, è come il supplizo di Tantalo».
Istintivamente mi scappa un’esclamazione:
«Come caspita fai a vivere con Carmen che ecciterebbe pure un morto».
«E infatti il supplizio è proprio questo», mi ribatte Massimo battendo la mano sul tavolo, «ho imparato a vederla come una sorella, piuttosto che come donna, non potevo fare diversamente, data la nostra storia comune».
«In che senso: storia comune», gli chiedo incuriosito.
Massimo a quel punto si ferma come se dovesse decidere se dire o non dire.
«Dopo avere lasciato il lavoro sbattendomi la porta alle spalle, ero convinto, data la mia esperienza, di trovare lavoro facilmente sempre nel campo delle illustrazioni per l’editoria e invece nessuno aveva interesse per chi lavorava con le mani e non con il computer. Sarà stato pure un atteggiamento infantile, ma non potevo accettare che quello che avevo fatto per tanti anni, non avesse più alcun valore e allora mi sono lasciato andare. Un amico psicologo mi è stato vicino e piano piano mi ha rimesso in piedi».
Nel bere il caffè approfitta per prendendosi una pausa:
«Frequentando il suo studio ho conosciuto Carmen che era in cura per superare una brutta esperienza, non so se faccio bene a dirtelo…vabbè! Era stata stuprata durante una festa a casa di amici e per questo aveva cominciato a lasciarsi andare e a prendere cose, insomma per farla breve abbiamo messo insieme le nostre solitudini e piano piano abbiamo ridato un senso alla nostra vita».
Le cose che mi aveva detto Massimo mi lasciano in silenzio e mentre bevo il caffè rifletto su come la vita a volte può essere crudele.
«Capisco che tu voglia proteggerla e che ti aspetti che io faccia altrettanto» e guardandolo dritto negli occhi «ti ribadisco che non ho assolutamente voglia di avere storie e ne tanto meno legami che non siano solo di amicizia, perché è proprio di questa che ho bisogno».
Siamo rimasti in silenzio bevendoci il caffè e mangiando i pasticcini che Isabella ci aveva portato; Massimo si toglie gli occhiali per pulirli con un tovagliolo. Ha una faccia buffa senza e i capelli con i riccioli scompigliati che gli incorniciano il viso grassottello lo fanno sembrare un cherubino.
«Si vede lontano un miglio che sei una brava persona» mi dice rimettendosi gli occhiali «e anche se ti conosco da poco tempo mi sembra di conoscerti da sempre…però adesso smettiamola di parlare di cose serie, facciamoci fare il caffè da portare a Ninni».
Appoggiati al bancone del bar, aspettando che Isabella ci faccia il caffè, ci giriamo curiosi, al rumore dell’aprirsi della porta d’ingresso. Anne Françoise ci viene incontro, con un’andatura quasi da indossatrice, accentuando ad arte la sua femminilità, come se ce ne fosse stato bisogno.
«Come si dice?, ho preso due piccioni con un fagiolo» ci dice con un tono intrigante tutto francese con la erre moscia.
«Con una fava, con i fagioli ci si fanno le cotiche», le dico io scherzando.
Anne Françoise è una donna sulla quarantina portati da dio. I lunghi capelli biondi naturali danno del suo viso un aspetto attraente che non si merita, è sì nel complesso una bella donna, alta slanciata, gambe stupende che mostra generosamente. Ma è il suo accento francese che fa di lei una donna sofisticata.
Le sue amicizie all’ambasciata del Belgio a Roma le davano spesso occasioni per mostre e visto il suo modo di vestire le cose le vanno decisamente bene.
«Ho intenzione di fare una cenetta tra amici sabato sera, niente di serio, giusto per stare tutti insieme, allora ci conto? Oh! Bel tenebroso», rivolgendosi a me, «guai a te se mi dai buco!».
«Buca, si dice buca», ormai è diventato un vezzo correggerla.
«Non preoccuparti ci sarò».
Usciamo dalla sala da tè tenendo io il bicchierino con il caffè per Ninni, quando da sotto l’arco d’ingresso ci sentiamo chiamare a tutta voce. È Carmen che letteralmente corre verso di noi e ci abbraccia entrambi facendomi rovesciare il caffè addosso, ma chi se ne frega, Carmen è raggiante:
«Al cliente il lavoro è piaciuto tantissimo e per premio invece di trecento euro me ne ha dati cinquecento e mi ha commissionato altre cose da fare, non vedevo l’ora di dirvelo. Oddio! Quanto sono felice».
Casablanca
Mi sistemai gli occhiali sulla fronte, dstendo le gambe, strofinandomi gli occhi; sbircio oltre la cornice del monitor e mi soffermo a guardare Carmen che è letteralmente ipnotizzata dal computer. Sta seduta con una gamba piegata sotto il sedere in una posizione non proprio comoda…sente di essere guardata, distoglie lo sguardo dal monitor:
«Che dici, vogliamo fare basta?» esclama stiracchiandosi «Lo faccio un po’ di caffè?».
Ormai si comporta come se stesse a casa sua e la cosa mi dà una sensazione di gioia. Sono certamente felice di vederla muoversi per la casa con la confidenza di una compagna rappresentando l’archetipo della moglie perfetta, che non ti assilla per le bollette, per la lavatrice che non funziona, per la macchina che fa un rumore strano, insomma che non somiglia a una donna che dimentica le tenerezze soffocate dalle problematiche del menage…il dialogo si perde in tutte quelle stronzate che dovrebbero essere solo affrontate e risolte senza petulanze e rompimenti vari.
Sono assorto in queste considerazioni quando Carmen lancia un’idea:
«Visto che è ancora presto per andare alla festa di Anne Françoise, perché non ci vediamo “Casablanca”?».
L’idea mi andava a genio, la televisione è collocata in un angolo dello spazio living, cioè la camera da letto, e per vederla bisognava sdraiarsi sui tappeti usando i cuscini come schienali. La seduta è comoda anche perché sotto i tappeti avevo messo dei materassini morbidi.
«Si sta proprio comodi, altro che poltrone!», esclama Carmen contenta di quell’intimità, io nel frattempo organizzo la visione del film e mentre armeggio con il lettore video non riesco a trattenere una risata che mi porta fino alle lacrime:
«Si può sapere che hai da ridere, mi sembri matto. Oh! Non saranno mica film porno? Guarda che se mi fai qualche scherzo ti cavo gli occhi».
A quel punto la mia risata contagia pure lei e come scemi ci rotoliamo sui tappeti per il gran ridere.
«Ma insomma mi spieghi che cosa c’è da ridere!» mi dice appena ritroviamo un minimo di serietà.
«Aspetta di vedere il film e capirai, poi ti spiego» le rispondo asciugandomi gli occhi dalle lacrime.
I titoli di testa scorrono sulla strafamosa colonna sonora “As time goes by…”, il mitico Humphrey Bogart, la stupenda Ingrid Bergman, infine il regista Frank Miller, chiude come di consueto i titoli di testa…cominciano i dialoghi e Carmen comprende il perché di tutto quel ridere:
«Ma è in lingua originale? E chi ci capisce, io l’inglese lo conosco abbastanza ma non tanto da capire un film intero».
«Dai è l’inglese di una volta si capisce benissimo» le dico rassicurante «vorrà dire che ti farò la traduzione simultanea, io l’avrò visto come minimo dieci volte».
«Ma perché l’hai comprato in lingua originale» mi chiede satndo in ginocchio «adesso che ci faccio caso anche gli altri sono lo stesso, “Vacanze Romane”, “Colazione da Tiffany” pure “Fronte del Porto” in francese…tu sei malato».
«No, non sono malato. Ho preso solamente una “sòla” su e-bay, per trenta euro mi sono aggiudicato una collezione di cento DVD di film storici, solo quando mi sono arrivati ho scoperto che erano in lingua originale. C’è pure “Sette Samurai” di Kurocawa con Toshiro Mifune in giapponese».
«Che fregatura, mi sarebbe proprio piaciuto vederlo, ormai mi ci ero accomodata, senti mandalo avanti fino a quando lei canta nel locale per Rich. Quando parte la musica rimaniamo travolti da quelle note:
You must remember this
A kiss is still a kiss
A sigh is just a sigh
The fundamental things apply
As time goes by
And when two lovers woo
They still say “I love you,”
On that you can rely;
No matter what the future brings
As time goes by.
…
Il film continua a scorrere e noi lo vediamo in silenzio.
Carmen si è sdraiata usando la mia coscia come cuscino; dal respiro capisco che si è addormentata; la lascio stare fino a quando comincia ad essere il momento di prepararsi per andare da Anne Françoise.
La guardo rannicchiata quasi come in posizione fetale, è bellissima, sembra indifesa come una bambina.
Per svegliarla le tocco la testa accarezzandole i capelli, lei fa un sospiro:
«Ma che mi sono addormentata? Scusa non me ne sono resa conto, mi dispiace».
«Non ti ho svegliato perché eri una visione stupenda, mi ha fatto tanta tenerezza. Comunque adesso è il momento di prepararci per andare da Anne».
Carmen si mette in ginocchio di fronte a me passandosi le mani tra i capelli:
«Nico! Ti dispiace se mi faccio la doccia da te? Ci metto un momento, tanto per asciugarmi i capelli faccio presto», poi guardandosi addosso, «I vestiti mi lascio questi, tanto sono puliti e comunque anche se ti presenti lercia non ci fa caso nessuno».
«Guarda dietro la porta del bagno ci sono due accappatoi, quello blu è pulito, non l’ho mai ancora usato; lo shampoo è nella doccia e il phon è appeso alla parete…mentre ti fai la doccia io mi cambio».
Spengo i computer e riassettare un poco gli appunti che sono sparsi disordinatamente sul tavolo mentre aspetto che esca Carmen dal bagno.
Carmen esce dal bagno frizionandosi la testa con un asciugamano e ai piedi indossava le mie croks che uso per la doccia; cerco di non posare lo sguardo sulle nudità che intravedo:
«Ma scusa! Ti sei messa l’accappatoio rosso, ti avevo detto di usare quello blu che era pulito!».
Lei maliziosa:
«Mi andava di sentirmi addosso il tuo profumo».
Mi tira l’asciugamano rientrando allegra in bagno.
Io come un cretino resto con l’asciugamano in mano che mi porto al naso per carpirne il profumo di lei.
L’Odalisca
Sento nascere una complicità che forse stadiventando anche troppo evidente e gli amici di Carmen non nascondono i loro sguardi indagatori per cercare di capire che caspita di rapporto si fosse creato tra di noi. Tutti sanno il motivo per cui lei viene a casa mia, ma vai a capire poi che cosa poi succedeva. Io non mi sono mai considerato un uomo affascinante né tanto meno sono un tipo che ci prova sempre e comunque; evidentemente questo atteggiamento, forse un po’ troppo distaccato verso l’altro sesso istiga le donne.
«Il primo brindisi lo facciamo alla salute di Nico, una new entry che comunque mi sa tanto che ha già rotto le uova nel paniere a qualcuno».
Esordisce Anne Françoise amplificando quel senso di curiosa ambiguità che non aveva certo bisogno di altre sottolineature, comunque Carmen non si sente certo in imbarazzo e fa la scema con tutti come al solito.
Con Mino era nata una discussione sull’arte, e le sue idee un po’ troppo stravaganti, mi fanno comprendere una sua visione sulla cultura farcita di slogan. È un personaggio decisamente di valore, ha la mia età, fermo e inamovibile al periodo hippy, capelli ricci lunghi legati alla nuca in una coda gonfia. Nel momdo dell’arte aveva seguito varie strade ma il comune denominatore è sempre stata la radicale incomunicabilità tra lui e il denaro. Non gliene importava un gran che di non aver soldi. Una volta che il lavoro dei tatuaggi gli aveva dato il necessario, non cercava altro, senza il bisogno di lavorare molto.
«Oh! Voi due state rompendo le palle con ‘sti discorsi», ci interrompe Gisa, «Tu, piuttosto, sei andato da tutti ma non sei venuta a trovarmi nel mio negozio» rivolgendosi a me con un tono di rimprovero «Ti volevo far vedere alcuni documenti antichi che ho trovato in un mobile per sapere di che periodo sono e se valgono qualcosa».
«Scusami» le dico con le mani giunte a mo’ di preghiera, «Sono passato una volta e ho trovato il cartello “torno subito” e me ne sono andato con l’idea di ritornare ma sai come capita poi, hai da fare e non ti muovi più, comunque ti prometto di venirti a trovare così parliamo un po’ con calma».
«Guarda che ti aspetto, ci conto», mi incalza Gisa e ci lascia di nuovo a discutere.
Dico a Mino: «La conosci bene la Gisa?».
«Ci frequentiamo spesso, come oggi per esempio» mi dice lisciandosi la barbetta «ma se dovessi dire di conoscerla bene direi una bugia. L’unica cosa che so per certo che è», per seguire il discorso mi si accosta all’orecchio e sussurrando: «che è una gran troia. Secondo te come fa a vendere tutti quei mobili in questo buco di paese?».
Adesso comincio a dubitare sulla vera intenzione di avere un parere su quei famosi documenti, mi sa che questa è una trappola bella e buona.
«Auguri quando andrai a vedere quei documenti», mi fa Mino malizioso, «scommetto che stai pensando la stessa cosa».
Soffermo lo sguardo sulla Gisa donna, ha gli occhi molto belli, limpidi di un verde chiaro con un taglio un po’ orientale, decisamente ben truccati, che esalta con un biancore diafano della pelle a causa di un fondo tinta chiarissimo su cui risaltano in un modo esagerato, senza però essere volgari, due labbra naturalmente turgide di un rosso lucido.
I capelli neri lunghi stirati e una bella figura generosamente messa in mostra da un vestitino corto e scollato che acquisiva slancio per scarpe di lacca rosse con dei tacchi altissimi che davano di lei un aspetto, tutto sommato piacevole.
Della compagnia fa parte un certo Sergio, un musicista che aveva suonato anche con Piovani, e accompagnato da Carmen si mette al pianoforte dove insieme eseguono il motivo de “La vita è bella” cantato da Noha. Carmen l’avevo sentita canticchiare mentre lavorava, ma sentirla adesso con l’accompagnamento giusto mi stupisce per la sua voce decisamente molto intonata.
Ormai il dato è tratto, se metti qualcuno che suona uno strumento che accompagni il canto, irresistibile nasce subito in tutti intonati e stonati la voglia di cantare e le canzoni degli anni 60/70 la fanno da padrone primo fra tutti quelle di Lucio Battisti. La consapevolezza di essere stonato come una campana mi fa defilare divertendomi a fare da spettatore e il mio desiderio sarebbe stato quello di continuarlo a fare fino alla fine ma Anne Françoise mi prende per mano e mi trascina accanto al pianoforte.
«Nico, adesso tocca a te! che ci canti?»
L’attesa per la mia esibizione mi fa comprendere che non ho nessuna possibilità di tirarmi indietro:
«Con la musica non si può solo cantare e dato che sono stonato non canterò» dico a tutti senza però voler essere scontroso» ma farò una cosa che mi coinvolge molto e che mi emoziona profondamente; mi auguro solo di non fare finire la festa però sono sicuro che emozionerà anche voi».
Gli sguardi che ricevo sono tutti punti interrogativi. Mi chiedono curiosi cosa caspita avessi intenzione di fare. Il vedermi confabulare con Sergio che fa cenni di assenso con la testa rende l’attesa piena di suspance, neanche stesse mettendosi d’accordo con Pavarotti e alla fine mi da l’ok.
«Vorrei le luci basse e il microfono con il volume più alto e i toni un poco più bassi».
Il silenzio era massimo; Carmen, invece, dopo lo scherzo di “Casablanca”, si aspetta di tutto da me e invece…Sergio intona un’aria antica napoletana, poi piano piano abbassa il tono e comincio a recitare senza fretta, lentamente, una poesia di Salvatore di Giacomo:
Nu pianefforte ‘e notte
Sona, luntanamente,
e ‘a museca se sente
pe ll’aria suspirà
E’ ll’una dorme o vico
Coppa sta nonna nonna
‘e nu mutivo antico
‘e tanto tiempo fa.
Dio quante stelle in cielo!
Che luna! E che aria doce!
Quanto na bella voce
Vurria sentì cantà!
Ma sulitario e lento (qui il piano quasi tace)
More ‘o mutivo antico;
se fa cchiù cupo ‘o vico
dint’a ll’oscurità.
L’anema mia surtanto
Rummane a sta fenesta.
Aspetta ancora. E resta,
ncantannose, a pensà.
Scandisco lentamente le ultime parole e la compagnia rimane silenziosa e attenta, mentre Sergio riprende a suonare con forza l’aria napoletana creando il giusto pathos.
Avevo recitato la poesia con grande trasporto e ho finito con un groppo in gola percepito da tutti con un’emozione che mi prende sempre quando recito questa poesia..Il lungo applauso mi sveglia da quel senso di raccoglimento che mi prende quando leggo le poesie che sono la lettura che preferisco.
«Io pensavo che volevi fare uno scherzo» mi dice Carmen che ha i lucciconi agli occhi e mi abbraccia teneramente «e invece mi hai fatto piangere, è stato bellissimo e Sergio è stato proprio bravo».
Massimo mi mette le mani sulle spalle e mi dice con evidente sincerità:
«Averti conosciuto e averti come amico è stata una grande fortuna per me soprattutto ma anche per gli altri, noi tutti abbiamo problemi di tutti i tipi ma tu con la tua amicizia ci stai aiutando veramente, ti vogliamo bene».
La mia esibizione, però ha creato un’atmosfera un poco malinconica, ma dopo un paio di giri di grappa il clima è tornato allegro, diciamo anche troppo specialmente quando qualcuno ha tirato fuori vari spinelli e forse qualcos’altro che non ho visto ma di cui si intuisce benissimo, considerati i risultati.
«Senti» mi dice Carmen tenendomi per un braccio «Io vorrei andare via. La festa a questo punto non mi piace più, la gente si lascia andare e non capisce più niente e preferirei non averci a che fare».
Io ho capito a cosa si riferisse. Usciamo senza salutare, tanto sono fuori di testa. Ci ritroviamo in strada con il fresco della sera che è veramente rigenerante e ci snebbia la mente togliendo quell’oppressione che ti lascia l’alcol e il fumo delle sigarette.
«Se mi accompagni a casa» dico a Carmen, «Ti lascio la chiave di casa…domani devo andare sul cantiere in Umbria e devo partire molto presto, tu però fai il tuo lavoro senza problemi e se devi stampare qualcosa ormai sai come si fa; io comunque torno prima di sera e se vuoi andiamo fuori a cena, puoi dirlo anche a Massimo di venire, se ti fa piacere».
Il piccolo mondo di Calcata ti costringe quasi a comminare in tondo percorrendo i vicoli che partono e poi confluiscono nella piccola piazza, è una dimensione perfetta per parlare…ci teniamo per mano, semplicemente…senza malizia, è solo voglia di un contatto che è mancato a entrambi per molto tempo
«Nico, sai la cosa strana? Siamo stati così tanto insieme che domani mi mancherà non poterti fare arrossire», mi dice con malizia.
«Ce ne vuole per farmi arrossire, carina! Adesso arriva lei e mi fa arrossire, ma mi faccia il piacere!», le dico scherzando cercando di imitare la famosa battuta di Totò spingendola sul braccio.
Ci sediamo sul lungo sedile di pietra che costeggia la piazza e lo sguardo vola verso il cielo…non un rumore, solo il nostro respiro.
«Non pensare che non me ne accorga quando mi guardi e poi ti giri altrove facendo l’indifferente» mi dice stringendosi a me come se sentisse freddo «essere guardata e magari desiderata mi piace, mi fa sentire donna. Non pensare male, non voglio metterti in difficoltà».
«Sarei ipocrita se ti dicessi che la tua presenza non m’imquieti» le dico guardandola nei suoi occhi da gatta «ma adesso non ne potrei fare a meno».
Saliamo in casa, prende la chiave sussurrandomi «Torna più presto che puoi, ti aspetterò a casa…notte!» esce di corsa baciandomi sulla guancia.
.
Nonostante la complessità del lavoro sul cantiere, non faccio altro che pensare alla sera prima con Carmen. Il rapporto che si sta creando comincia ad essere molto intimo. Sicuramente non c’è ancora stata nessuna condivisione fisica, non un bacio che sia tale e una provocazione che potesse spingerci a qualcosa in più, però c’è tanta voglia di confidarsi e di scoprire le proprie anime.
Mi piace molto questo rapporto un po’ malizioso e un po’ complice, e mi piace anche quello che gli amici pensano di noi. Non so se questo inorgoglisce il mio essere maschio ma di sicuro eccita le fantasie delle sue amiche che si sono messe tutte in tiro approfittando di tutte le occasioni per fare le gatte con me. Lo squillo del cellulare mi fa sobbalzare, leggere sul display il nome “Carmen” mi ha creato un’emozione violenta, quasi un colpo al cuore:
«Dimmi che mi stai pensando?» mi sussurra con una voce alla Marylin e senza darmi il tempo di dire qualcosa: «Ciao!» e chiude.
Come lo chiamava Massimo: il supplizio di Tantalo.
La giornata era stata positiva, il lavoro scorreva senza problemi. Ormai sono le sette e dopo avere pagato il pedaggio al casello di Magliano Sabina, telefono a Carmen:
«Nico che gioia, dove sei?», mi risponde con slancio.
«Allora sei pronta? Guarda che fra mezzora sono a casa».
«Stai tranquillo mi troverai bellissima, ti aspetto!».
Non mi sono accorto di accelerare, veramente ho voglia di tornare a casa, lo devo ammettere: Carmen mi manca.
Mentre guido la testa gira e rigira tornando sempre allo stesso punto:
«Nico mi sa che ti sei innamorato un’altra volta!» mi dico parlando ad alta voce.
È cosa che assolutamente non deve succedere, non posso fare gli stessi errori a vita, non posso fuggire pure da lì. Porca miseria sono appena passati tre mesi e già sto a questo punto, nemmeno fossi Gorge Clouney.
Arrivo a Calcata che è ormai buio. Faccio la ripida salita che porta in piazza quasi di corsa, devo riprendere fiato perché ho il cuore in gola.
Dalla piazzetta alzo lo sguardo verso le finestre di casa. Quella del salone è buia, mentre quella della camera da letto è illuminata da una luce fioca e tremolante come quella di una candela.
«Chissà che cosa starà organizzando, se ha deciso di farmi una sorpresa mi dovrò aspettare di tutto».
Penso a tante cose mentre salgo le scale.
Appena aperta la porta mi aspettavo che mi venisse incontro e invece niente, silenzio assoluto. Tutto è buio, solo la fioca luce che proviene dall’alcova, come la chiamava lei, illumina malamente l’ingresso. Entro circospetto nella stanza, adesso la sorpresa che mi aspetto mi rende inquieto e eccitato nello stesso tempo. Potevo immaginarmi di tutto e a tutto ero pronto. A tutto sicuramente ma non a quello!
La stanza è piena di candele profumate che diffondono una luce fioca ma caldissima e emanano un profumo intenso.
Carmen è lì, in fondo alla stanza di fronte a me, distesa sui cuscini con i capelli ed il viso coperti da un velo, sono scoperti solo gli occhi.
Il corpo nudo è bene evidente attraverso le trasparenze da veli leggerissimi, non credo che sia mai esistita un’odalisca più bella.
Lascio cadere la borsa. Lentamente mi siedo sui cuscini standole di fronte senza smettere di guardarla. Percepisco il suo desiderio di sentirsi accarezzata dai miei sguardi, non più fatti di nascosto…rubati.
Lei si sta offrendo a tutti i miei sensi…è un amplesso che coinvolge tutto il nostro essere senza essere sporcato dal contatto delle pelli, dagli umori, dalle nostre imperfezioni, dalle nostre voglie particolari.
Non m’importa se invece di essere io il cacciatore mi sentissi trasformato invece in preda, è nella logica delle cose del rapporto che si era creato tra di noi. Carmen sa che io non avrei mai fatto nulla che lei non avesse voluto. Si sentiva desiderata; hai voglia a fare l’indifferente, lo sguardo, il tono delle parole,
il semplice toccarsi, il sentire l’uno il profumo dell’altro, lo stare vicini, anche farsi un caffè sprigiona desiderio, anche i gesti più normali subiscono un cambiamento, sembrano diversi, sembra di farli per la prima volta perché li fai alla persona che desideri e che senti che ti desidera.
Quando si è messa il mio accappatoio era la sua pelle nuda che si stava cibando delle tracce del mio corpo.
Ma adesso la sfida è diretta, inequivocabile e purtroppo, irrevocabile.
Lei mi guarda...Io la guardo.
Posso fuggire, ma per andare dove? Vivere nel rimpianto o nel pentimento?
Da uomo ho scelto il pentimento.
Andrea
«Sir! Sorry sir! Tea, coffe or orange juice?», l’hostess mi distoglie dai miei pensieri, «I beg your pardon! Coffe please thanks».
Bevo quella brodaglia che gli inglesi chiamano caffè, e ammiro l’azzurro del mare sotto di me.
«Stiamo sorvolando la Sicilia e dal bordo sinistro è possibile vedere l’Etna e il suo pennacchio di fumo, si pregano i signori passeggeri di mantenere i propri posti, arriveremo a Malta tra quindici minuti, le condizioni sono ottimali» la voce del comandante fa distogliere tutti dalle cose che in quel momento ognuno sta facendo per godersi lo spettacolo dell’Etna con il pennacchio. Ormai avrò fatto questo tragitto non so quante volte e tutte le volte il comandante avvisa per questa visione e devo dire che la vista del vulcano che erutta è sempre avvincente.
È dalla partenza che non faccio altro che pensare a Carmen e a quello che era successo ieri sera.
Avevamo saltato la cena, e chi aveva voglia di mangiare!
Avevamo fatto cadere la muraglia che ci eravamo creati con tutte le nostre paure e finalmente ci eravamo abbandonati l’uno nelle braccia dell’altra.
Carmen, mentre stava appoggiata con la testa sul mio petto mi confida:
«Lo sai che erano più di tre anni che non facevo sesso? Tu sei stato dolcissimo, non hai avuto fretta, mi hai dato il tempo di sciogliermi, di superare le paure che mi stavano bloccando nonostante il grande desiderio che sentivo».
Non posso dire che non sia stato bellissimo, ma dentro di me c’era una resistenza terribile a legarmi di nuovo ad una donna.
Mi ricordo un’intervista ad un noto personaggio, mi pare fosse Sgarbi ma, non ne sono proprio sicuro, che diceva che fare sesso con una donna era il modo perfetto per finire una splendida serata. Io per ora desidero solo questo, essere intrigato da una donna e reciprocamente, giocare con il sesso, a stuzzicarsi sempre con malizia senza però mettere in mezzo i sentimenti.
Invece la tenerezza che sento e che mi avvolge anima e corpo se non era amore ci somiglia un po’ troppo e questo non deve succedere, non può succedere proprio in questo momento e allora è meglio fuggire, scappare lontano, cercare di ritrovare l’equilibrio e poi ritornare con l’idea che una scopata non dice nulla, che se ne possono fare cento e rimanere solo amanti senza cercare di costruire niente, senza futuro, senza progetti.
Io avevo già dato.
Questa mattina quando mi sono svegliato non ci ho pensato molto e dopo avere prenotato il volo, prendo la sacca che ho sempre pronta per il viaggio a Malta e lasciato il telefonino in bella mostra sul tavolo, senza altri ripensamenti mi sono lasciata Calcata alle spalle, Carmen fortunatamente non era rimasta a dormire da me.
Sono molto legato a Malta specialmente a Marsaxlokk un piccolo paese di pescatori fuori dal clamore del turismo, io e un mio amico avevamo preso in affitto proprio in quel paese una villetta in riva al mare e approfittando di un affare avevamo comprato una barca a vela, un Nauticat 33 usato ma in buono stato, con cui facevamo delle piccole crociere.
Rimorchiavamo turiste di tutte le nazioni alla grande, passando delle vacanze incredibili. Purtroppo un incidente stradale si è portato via il mio amico e io ho preferito lasciare la casa e utilizzare la barca come appoggio.
La barca è ormeggiata nel marina del club nautico di Sliema proprio sul fronte strada e siccome tutte le turiste passano di lì, non era difficile invitarne qualcuna a salire a bordo anche solo per un prosecchino che poi diventava un invito a cena e poi e poi…ma oggi non avevo proprio voglia di compagnia.
Quando ritorno in barca la prima incombenza è sempre quella del lavaggio per eliminare la salsedine il più possibile quindi forza con tubo d’acqua e spazzola.
«Nico! Ma che bella sorpresa! Ma perché non mi hai detto che saresti venuto a Malta? Avremmo fatto il viaggio insieme».
Resto sorpreso per quell’esclamazione, ma il vedere Andrea mi mette subito di buon’umore:
«Andrea, amore mio! Sei la mia salvezza, dai sali e comincia a darmi una mano» le dico porgendole la mano mentre attraversa la passerella.
«Ma non ci penso proprio! Le pulizie falle fare alle tue sgallettate. Ancora mi ricordo di quella povera ragazza inglese a cui hai fatto lucidare tutti gli ottoni, le ci sono voluti due giorni per pulirli tutti».
Andrea ed io siamo cresciuti insieme e i nostri genitori avrebbero voluto anche che ci sosassimo, ma invece noi avevamo preso strade diverse, e per molti anni ci siamo persi di vista. Una decina di anni fa, lei aveva divorziato e mi aveva cercato professionalmente per la divisione del patrimonio e da allora lei è diventata il mio rifugium peccatorum.
C’è chi ha il padre spirituale e chi ha il rifugium peccatorum.
Quando avevamo bisogno di confidarci stavamo insieme per qualche giorno. Ci confessavamo reciprocamente tutti i nostri casini e quasi sempre trovavamo la via d’uscita ai nostri problemi. Na nostri incontri non erano solo riparatori, spesso diventavamo compagni di viaggio o compagni per andare a sentire concerti o andare a teatro.
Andrea è una donna con un fascino notevole, una figura curata sino all’ossessione con frequentazioni assidue nelle beauty farm di Mességué e nonostante la sua età ha il corpo di una trentenne. È altissima, tanto che porta sempre scarpe basse. Di famiglia ricca, aveva studiato in Inghilterra e per questo parlava un inglese perfetto e spesso mi prendeva in giro quando dicevo qualche castroneria.
Mi ricordo ancora, quando abbiamo ripreso a frequentarci, eravamo tutt’e due in balia degli eventi. Lei in fase di divorzio e io che avevo appena lasciato mia moglie. Con molta titubanza ci siamo avvicinati per un bisogno reciproco di avere un amico a cui appoggiarsi, e su cui contare sempre e in qualsiasi momento, poi piano piano sentivamo di poterci donare un po’ di tenerezza e sicuramente affetto sincero. Dopo il nostro primo bacio vero, lei scherzando ma seria mi disse:
«Nico caro, lo sai che non sono una ragazzina e non ho nessuna voglia di essere più coinvolta sentimentalmente, ho solo bisogno di sentirmi donna, ma ti avviso! Ricordati che sono una donna esigente»
Esigente, che cosa avrà voluto dire con la parola “esigente”, se la vedo da uomo, penso alle peggiore turpitudini e quasi quasi la cosa mi sarebbe andata anche bene, in fondo ognuno di noi ha le sue perversioni nascoste. La cosa comunque mi creava qualche inquietudine anche perché l’Andrea che mi ricordavo non era certo così perversa ma siccome invecchiando si peggiora sempre, se si fosse trattato di qualcos’altro per conoscere le sue “esigenze” non dovevo fare altro che vedere come sarebbe andato a finire.
Non era niente di perverso, solo che quando ne sentiva il desiderio voleva fare l’amore in qualunque situazione ci trovassimo: in macchina, sulla spiaggia, in cucina, in bagno, svegliandomi in piena notte.
Era una vera forza della natura e faceva sesso con grande slancio e desiderio. Diceva che da quando era entrata in menopausa spesso sentiva un desiderio di sesso innaturale e mai provato prima.
Fortunatamente non le capitava spesso e quando succedeva veniva a casa mia o mi invitava nella sua e passavamo una bella serata rigenerante per entrambi.
«Come mai sei a Malta?», le chiedo curioso.
«Sai della casa che ho a La Valletta? Ho deciso di sistemarla un po’, come si trova adesso non è molto abitabile. Ho appuntamento con una ditta che mi ha consigliato un vecchio amico maltese, il tempo di mettermi d’accordo e poi penso di tornare a casa domani stesso. Tu piuttosto non me la conti giusta, ti conosco troppo bene, sei di nuovo nei casini eh! Quanti anni ha questa volta?».
«Non preoccuparti, ti racconto tutto però adesso farmi finire di fare questa cosa se no mi passa la voglia. Ma tu dove stavi andando?».
«Al Phoenicia, lo sai che vado sempre lì, sono abitudinaria e non mi piace cambiare quando mi trovo bene e poi cucinano bene».
Il Phoenicia é un albergo a cinque stelle superiore e decisamente ben frequentato. Io non sono mai stato un grande appassionato d’alberghi, anche se qualche volta mi era capitato di averci soggiornato. Non c’era proprio nulla da eccepire sul fatto che fosse un ottimo albergo anche se il tutto si svolge sempre con un grande formalismo molto british.
«Andrea! Perché non ti fermi in barca con me? Una volta tanto non fare la sofisticata. Se dormi qui ti faccio risvegliare a Gozo e facciamo il bagno nudi. Allora che decidi? Guarda che al Phoenicia, te lo dico subito, non ci vengo, non mi va di rintanarmi in albergo quando sono in barca».
La vedevo tentennare poi decisa:
«Guarda che se mi fermo, te la faccio scontare, ti finisco e ti faccio scordare quella sbarbatella che ti sei fatto e da cui sei scappato…Vigliacco che non sei!».
Mentre lei si reca al Phoenicia per riprendere le sue cose io sistemo in maniera accurata l’interno e specialmente la cabina armatoriale. Metto in frigo una bottiglia di Moscato d’Asti che so che è la sua passione e una bottiglia di un passito di Pantelleria a cui tengo molto perchè l’avevo comprata con il mio amico in una crociera proprio in quell’isola. Questa è l’occasione giusta per tirargli il collo.
Un taxi si ferma davanti al marina e Andrea viene verso di me con un piccolo borsone; la cosa mi meraviglia perché lei quando si muove fa un vero e proprio trasloco.
«Ho prenotato un tavolo per questa sera al Phoenicia», mi dice lanciandomi il borsone per appoggiarsi meglio sulle cime della passerella, «Alle comodità ci posso anche rinunciare ma a mangiare bene non ci rinuncio nemmeno morta, piuttosto te lo sei portato un vestito elegante? Sai come sono formali».
«Tranquilla! In barca ho pure lo smoking, se vuoi mi metto quello», effettivamente era vero, ero attrezzato con tutto ciò che serviva per una serata elegante, al club nautico spesso capitavano feste e era imperativo un po’ di eleganza e poi non sai mai cosa ti poteva capitare.
«Ah! Ah! Ah! Che ridere, ma che hai chiamato Mary Poppins, così in ordine questa barca non l’avevo mai vista, le cose che stavano in mezzo dove le hai messe» mi dice ridendo, esplorando la barca «tu saresti stato capace di buttarle, è veramente incredibile ed è pure profumata, scommetto che hai pure lo champagne in frigo».
«Senti» le dico scherzando, «Cerca di fare meno la scema, ti conosco troppo bene e se fossi entrata con la barca in disordine avresti girato i tacchi e te ne saresti ritornata al Phoenicia e poi in frigo non c’è lo champagne ma il Moscato d’Asti della tua marca preferita quindi come vedi sono sempre attrezzato per conquistarti».
Riuscire a prepararmi per la cena è un’avventura.
Andrea mi dà il tormento continuamente; durante la doccia mi vuole lavare lei, e quando mi ha eccitato al punto giusto e io sarei stato pure pronto a fare l’amore, lei con il dito dice no ribadendolo con lo schiocco delle labbra.
L’aveva detto che me l’avrebbe fatta pagare.
Decidiamo di andare al Phoenicia a piedi. Sembriamo due fidanzati mano nella mano parlando dei pro e dei contro della sua idea di candidarsi per la carica di sindaco a Capodimonte sul lago di Bolsena, da dove la sua famiglia era originaria e di cui erano stati sempre personaggi in vista, specialmente durante il periodo fascista con il nonno federale. Adesso, anche se era stata sempre di Alleanza Nazionale aveva abbracciato Forza Italia di cui conosceva personalmente diversi esponenti che la stavano spingendo a candidarsi.
Lungo tutto il tragitto dal marina di Sliema e il Phoenicia è stato un continuo insistere per conoscere le mie vicende.
«Quando cominci a vuotare il sacco? Che vuoi che ricomincio a tormentarti?» mi minaccia appena ci siamo accomodati al tavolo.
«No! No! Per carità, so quanto sei pericolosa», mi affretto prima che le si metta a fare cose, col rischio di farci cacciare dal locale, «Questa volta il sesso c’entra ma non è la cosa principale. Lei è una ragazza di trent’anni con una personalità notevole e debbo dire che è stata capace di mettermi con le spalle al muro…è stata proprio brava anche se non c’era nulla di premeditato e io ci sono cascato come un cretino».
«Come si chiama la ragazza?».
«Carmen».
Lei rimane un poco pensierosa mentre scorre il menù, il somellier mi porge la lista dei vini. Questa è cosa mi crea sempre una grande angoscia, mi fa sentire sempre sotto esame. Qualsiasi cosa scegli, il somellier ti guarda schifato e se, per fare l’esperto vai su quello più costoso è pure peggio perchè fai la figura del burino, e allora metto in atto la mia solita strategia per fregarlo, e per fare sempre la mia bella figura, ordino sempre senza vedere la lista.
«Soave Valpolicella per i primi e Recioto di Amarone per gli arrosti», il Recioto non ce l’hanno mai, per cui il Somellier è costretto a scusarsi per quella mancanza e allora “ripiego” su un Cabernet sempre della Valpolicella.
«Sempre con questa storia del Recioto! Mi fai venire il nervoso», mi fa Andrea fulminandomi con lo sguardo, «A me il primo non va, anche se oggi non ho mangiato, preferisco un antipasto di mare, qui lo fanno molto bene e ci sono quattro o cinque cose che mi stuzzicano», poi mi minaccia seria fissandomi severa «E guai a te se chiedi le Sbeine».
Io effettivamente volevo proprio quelle, mi piacciono da morire, sono del formaggi caprini stagionati nell’aceto e nell’aglio, sono buonissime l’unico difetto che lasciano un alito un pochino pesante. Ci vado matto ma mi sa che questa volta ci dovrò rinuciare.
«Antipasto di mare anche per me» ordino al cameriere.
Le verso del vino; lei ne beve un piccolo sorso in silenzio come per raccogliere i pensieri…poggia il bicchiere sul tavolo, e si sporge verso di me:
«Ti sei innamorato! Lo capisco perché non ne parli. Altre volte mi raccontavi pure i particolari adesso invece stai zitto e muto».
«Carmen mi piace molto, è quella ventata di freschezza che ti stordisce e ti sveglia quando ti senti rincoglionito» cerco di dire le cose che sento veramente «ti sa prendere per il verso giusto e non ti mette mai in difficoltà, io non le avevo chiesto nulla e ne tanto meno ci avevo provato è stata lei ad offrirsi e al momento cedere mi è sembrato il male minore».
«Nico, Nico! Tu purtroppo sei fatto così e ancora non hai capito come sono fatte le donne e tutte le volte ci caschi» mi dice, assaggiando una tartina «Se una donna si sente ignorata stai sicuro che si vendica. Pensi di averle fatto del male e invece chi ci rimette sei tu…possibile che non ci arrivi a capirlo? Carmen ti ha preso come e quando ha voluto, preparandoti un piatto che non potevi rifiutare, io non mi sentirei in colpa e sono sicura che adesso è lei a pentirsi di questa cosa e si sta rendendo conto di avere fatto tutto troppo in fretta».
Il motivo per cui non sono capace di litigare con una donna è proprio la lucidità che hanno nel centrare “la madre del cordero” come dicono gli spagnoli.
«Sei proprio convinta che Carmen adesso si stia sputando in faccia?» le dico perplesso.
«Fidati!» mi dice convinta.
« Quando parlo con te riesci sempre a farmi vedere le cose in un modo diverso e anche se mi fai sentire sempre un cretino …ti voglio bene».
La cena intanto si consuma tranquilla scherzando su tutto. Rimango spesso incantato nel vedere Andrea in certi atteggiamenti che ha solo una donna di classe. Andrea mentre parla agita i suoi capelli biondi esprimendo le sue emozioni negli occhi quasi azzurri e nelle pieghe di un viso molto mobile ed espressivo.
E’ una donna molto bella che ha la consapevolezza di esserlo; ha saputo esaltare quello che madre natura le aveva dato con generosità con un’attività sportiva continua e cure del corpo ossessive. Ha una cultura profonda che però esprime in una maniera distratta e non pedante e mentre ci accaloriamo su la struttura del Guggenheim Museum di Bilbao realizzata da Frank Gehry mi rendo conto che con Carmen non avevo mai parlato di cultura e, da alcune frasi che aveva detto, s’intuiva che non avesse basi culturali profonde.
Nonostante tutto però qualche ritocchino se l’era fatto fare anche se lei lo negava decisamente.
«Perché non ti rifai il seno? Ti è rimasto solo quello da fare» le dico per farla arrabbiare.
«Da quand’è che ti piacciono le tettone?» poi le viene un pensiero che la fa sorridere «non dirmi che Carmen ha le tette grosse?».
«Non credo proprio! Non porta nemmeno il reggiseno!».
«Ah Ah Ah!» mi fa il verso con una finta risata «il mio seno è perfetto, nonostante la gravidanza.
«Ma se non hai nemmeno allattato!».
«Parli come uno che non me l’abbia mai visto e palpeggiato. Il fatto che tua madre ti ha allattato fino a tre anni, qualche problema, per me, te l’ha creato sicuramente…in una donna vedi solo le tette».
«Anche gli occhi!».
«Ah! Adesso il culo si chiamano occhi?»
Ha una cultura profonda che però esprime in una maniera distratta e non pedante e mentre ci accaloriamo su la struttura del Guggenheim Museum di Bilbao realizzata da Frank Gehry mi rendo conto che con Carmen non avevo mai parlato di cultura e da alcune frasi che aveva detto s’intuiva che non avesse basi culturali profonde.
Malumore
Non so perché il precedente proprietario della barca l’abbia battezzata “Malumore”, però ormai non si può fare più nulla, cambiare il nome ad una barca porta male e per chi va per mare, avere il vento e la fortuna a favore, sono cose indispensabili.
Ieri sera siamo tornati in barca molto allegri. Usciti dal ristorante avevo costretto Andrea a fermarsi in una vera e propria bettola nella parte vecchia di La Valletta, vicino al mercato coperto.
Era un vero e proprio buco non più grande di una stanza quattro metri per cinque, con un bancone di marmo in fondo e solo quattro tavoli addossati alle pareti.
I tavoli sono tutti occupati da clienti che sicuramente erano sempre i soliti. Sorpresi dall’ingresso di due personaggi inconsueti, fuori dal loro standard, sono rimasti un poco interdetti dandosi un contegno meno sbracato.
Un signore sulla settantina con un cappello da marinaio sulle ventitre si alza per cederci il posto andando ad occupare una sedia nel tavolo accanto insieme agli altri clienti, però gentilmente prima di alzarsi aveva provveduto a pulire il piano del tavolo con la manica della giacca, facendoci poi il segno di accomodarci visto che per lui era tutto in ordine.
«Nico, io ti strozzo, si può sapere dove mi hai portato?», mi sussurra Andrea tra lo schifato e l’inorridito e io, ridendo di gusto perché mi aspettavo quella reazione.
«A Malta se vuoi bere lo sherry migliore devi andare nelle osterie dei marinai, fidati di me non te ne pentirai», e rivolto all’oste:
«Sherry for all the people and the best naturaly», la compagnia si è subito animata, nel ringraziarci ci chiedono subito se eravamo italiani e quando gli diciamo di venire da Roma ci fanno un sacco di complimenti.
Il feeling dei Maltesi con gli Italiani è dato proprio dalla grande ammirazione che loro hanno dell’Italia. Molti parlano l’italiano sia per aver lavorato su navi italiane per anni ma principalmente perché vedono le televisioni italiane e sono tifosi del calcio di casa nostra.
Dopo tre giri di sherry la lingua dei nostri amici marinai si è sciolta in racconti incredibili e in avventure di tutti i tipi, quando ci siamo salutati, uno dei marinai più anziani, avendo saputo che navigavo, ha voluto regalarmi il suo berretto dicendomi:
«Con questo berretto in testa sono sempre tornato a casa, adesso non navigo più ho quasi ottantacinque anni, le tempeste che abbiamo affrontato insieme non te lo puoi nemmeno immaginare, sarà più utile a te e vedrai che con lui in testa metterai sempre la barra verso il porto giusto».
Ho apprezzato tantissimo questo gesto e nonostante che fosse consunto e sporco me lo sono messo in testa e prima di uscire lo abbraccio con lo spirito marinaresco:
«Tu non sai quanto apprezzo questo regalo, io vengo spesso a Malta e ti prometto di venire ogni volta insieme al tuo berretto a bere alla tua salute».
Gioseph si è commosso, oggi per lui è stata una bella giornata.
«Queste cose al Phoenicia non succedono», sussurro nell’orecchio ad Andrea, «Se vuoi conoscere la gente e capire lo spirito del luogo, il “genius loci” come dicono le persone colte, devi avere l’umiltà di adeguarsi ai loro standard, lo so che il posto faceva schifo ma la gente era pulita, sincera».
«Ciò che mi è sempre piaciuto di te è che prendi sempre il lato positivo e bello delle cose, sei un ottimista incallito e questo ti causa sempre un sacco di guai», e poi indicando il berretto: «Se non ti togli quella schifezza dalla testa stanotte ti faccio dormire fuori». Sono veramente orgoglioso del mio berretto e giuro che non lo laverò mai, dopotutto se Gioseph era arrivato a quell’età voleva dire che malattie non ne aveva e lo sporco faceva molto vintage, volevo proprio vedere che avrebbero detto gli amici del club nautico.
Sarà stato lo sherry o la stanchezza, Andrea si è accoccolata vicino a me addormentandosi quasi subito. Dico la verità, non mi va molto di fare l’amore e il fatto che lei dormisse mi va benissimo; speriamo che la voglia non gli venga in piena notte, non sarebbe stata nemmeno la prima volta.
Invece la notte è passata tranquilla.
Alle sei e mezza sono sveglio con l’idea di lasciare l’ormeggio per andare verso l’isola di Gozo e gettare l’ancora al largo dell’isolotto di Comino brullo e disabitato.
In silenzio scivolo fuori dal letto facendo attenzione a non svegliare Andrea che ancora dorme profondamente.
La barca è ormeggiata di poppa con la prua rivolta verso l’uscita del porto, altre volte ero uscito a vela sfruttando la termica che da terra soffia verso il mare; uscendo in coperta vedo con soddisfazione che oltre alla termica soffia anche un leggero vento che va proprio nella direzione giusta.
Libero le vele che erano già preparate che cazzo appena mollato l’ormeggio. La barca lentamente prende l’abbrivio e in silenzio si avvia verso il mare aperto.
Quando finalmente ho messo la prua con la giusta barra e regolate le vele in modo appropriato, inserisco il pilota automatico e mi preparo il caffè senza mai smettere di guardare il mare a prua della barca. Con il continuo traffico dei traghetti che andavano a Gozo, è meglio stare sempre in guardia.
Il berretto l’ho posizionato in bella mostra vicino alla bussola sulla consolle di comando. Adesso mi sento un marinaio vero. L’abbigliamento è una cosa importante per chi va per mare, e si spendono bei soldini per pantaloni tecnici o felpe dedicate, e poi quando incontri i marinai veri ti rendi conto che invece loro sono vestiti con cose semplici ma comode e soprattutto robuste adatte a camminare sulle ginocchia o arrampicarsi sull’albero o infilarsi nel vano motore per cambiare l’olio, e invece al club vedi tutti lindi e pinti con pantaloni e felpe con simboli nautici ricamati in oro o stampati dappertutto che ti fanno sembrare marinaio consumato, ma in fondo non si fa altro che recitare per sentirsi parte di un mondo particolare e soprattutto esclusivo.
E’ la prima settimana di giugno e a Malta la temperatura adesso è come da noi in estate, è questo il periodo migliore anche perché in Agosto poi c’è troppo caldo.
Arriviamo a Comino che sono le nove e mezzo e trovato il posto giusto comincio a filare la catena dell’ancora sapendo benissimo che il rumore dell’operazione avrebbe sicuramente svegliato Andrea. La vedo salire in coperta ancora assonnata, con i capelli arruffati, nuda incurante della situazione in cui si sarebbe trovata appena fosse uscita in coperta.
Si guarda intorno senza dire nulla e senza pensarci un secondo si tuffa in mare con uno stile impeccabile.
A quel punto non potevo che fare altrettanto, mi denudo anch’io e mi tuffo superando la ritrosia ad entrare in acqua di colpo.
Il contatto dell’acqua gelida mi fa esclamare nel mio intimo “Li mortacci quant’è fredda!”, e pensare che l’idea era stata proprio mia.
Lei nuota più velocemente di me e approda sull’isolotto sdraiandosi subito al sole sulle rocce di arenaria.
La sua pelle chiara risalta sulla roccia rossa e così distesa sembra la sirena di Ulisse e se Omero aveva pensato di ambientare la leggenda proprio qui un motivo ci sarà pure stato. Lei è la conferma vivente di come una donna ti può sconvolgere la vita. Dopo aver fatto un paio d’immersioni e ormai completamente congelato arrivo sulla terra ferma anch’io.
Andrea comincia a ridere come una matta indicando con il dito il mio membro che con il freddo è quasi completamente scomparso:
«Poverino! Ha avuto freddo, vieni che ci pensa la mammina a scaldarti».
C’è voluto un bel po’ per recuperare un poco di calore ma poi non c’è voluto molto per arrivare anche alla sudata di quelle che fanno bene alla salute.
Rimaniamo fino a mezzogiorno distesi a prendere il sole indifferenti a chi sicuramente ci sta osservando con il binocolo da una di quelle barche che ci passano al largo, però il traffico adesso comincia ad essere un po’ troppo e alla vista di un gommone che si sta dirigendo verso l’isola, ci tuffiamo in acqua per tornare alla barca.
Sbarco a Gozo
Come previsto, dopo aver soddisfatto la sua eccitazione, sento che non ha più intenzione di fare sesso, anche se le piace stuzzicarmi continuamente. Meglio così, io non mi sono mai considerato una macchina da guerra. Mi piace fare l’amore e sento il desiderio di farlo quando percepisco che è il momento giusto e non solo per soddisfare un bisogno.
Ormai è da un po’ che siamo distesi a prendere il sole in coperta:
«Se ci fossimo sposati secondo te avremmo divorziato?».
Questa domanda così inaspettata di Andrea mi stupisce non avevamo mai trattato questo argomento; mi sollevo e mi giro verso di lei appoggiandomi su un gomito:
«Secondo me non avremmo superato il viaggio di nozze», le dico quasi convinto di questo, «Ti ricordi cosa è successo la prima volta che ci siamo baciati seriamente?».
«Perché che cosa sarebbe successo di così tanto sconvolgente?».
«Ah! Adesso fai finta di non ricordarti?», le dico prendendola per la gola facendo finta di strangolarla, «Appena ho accostato le mie labbra alle tue sei svenuta, caduta per terra come uno straccio con la gente che accorreva, un medico che ti rianimava insomma un casino che non ti dico, e se questo succedeva con un bacetto figurati alla prima notte di nozze come minimo ti veniva un infarto».
«E così mi hai preferito quella tettona che faceva la smorfiosa con tutti e che, data la sua collaudata esperienza, non sarebbe svenuta di certo», mi ribatte acida, è proprio vero, fai un torto ad una donna e non te lo perdonerà mai.
«La tettona, come la chiami tu era amica tua e alla festa dei diciotto anni sei stata tu a costringermi a farle da cavaliere per non avermi tra le scatole perché ti piaceva quel salame viterbese che poi ti ha dato pure buca, invece a me era andata parecchio meglio…beccati questo!».
Con Andrea facevamo spesso queste rievocazioni adolescenziali.
Siamo cresciuti insieme fin da quando eravamo piccolissimi. I nostri genitori si facevano favori a vicenda per prenderci a dormire o mangiare ora in casa di uno ora in casa dell’altro, e come tutti i bambini ce le davamo di santa ragione.
La prendevo in giro perché le dicevo che io avevo il pisellino e lei no, lei si arrabbiava e correva dalla madre gridando come un ossesso perchè voleva il pisellino pure lei.
«Io sono convinta che se ci fossimo anche solo fidanzati avremmo rovinato il nostro rapporto. Io ti ho voluto e ti voglio un mondo di bene» si ferma un momento guardando le nuvole nel cielo azzurrissimo rivivendo quei momenti «se ci pensi avremmo potuto pure festeggiare le nozze d’oro di una cosa che per me rifiutiamo di chiamare amore spacciandolo solo per affetto».
«Vedi», le faccio io con il tono di chi dice la verità assoluta, «Quando due persone si innamorano c’è un sentimento che nasce tra due perfetti estranei, che dal nulla diventano una cosa sola, e nasce in un momento preciso tant’è che diventa poi una ricorrenza. Nel nostro caso un inizio non c’è mai stato è stata una storia senza inizio e spero senza fine, come il film Casablanca…A proposito questa te la devo proprio raccontare».
Andrea si drizza a sedere e aspetta ansiosa anche perché ha capito chi è il protagonista anzi “la” protagonista della storia.
«Carmen?», mi fa subito lei.
«Esatto», le faccio io, «hai presente la collezione di DVD in lingua originale che ho preso su e-bay, ebbene quando Carmen ha visto tutti quei film classici ha voluto a tutti i costi che le facessi vedere Casablanca. Non ti dico le risate quando si è accorta che era in inglese…dopo un quarto d’ora dormiva».
«Avrei voluto essere una mosca per vedere la scena», disse ridendo a crepapelle.
Lo squillo del cellulare interrompe le nostre risate. Andrea scende sotto coperta per rispondere, capisco subito che stava parlando con Petra, la figlia.
Andrea era rimasta incinta che ancora con aveva compiuto vent’anni, il padre se l’era presa pure con me che non le ero stato dietro. Il matrimonio riparatore aveva riparato l’aspetto legale e religioso ma quello sgarbo la famiglia non glielo ha mai definitivamente perdonato. Il papà di Andrea è tutt’ora vivo, ha più di novant’anni e quando sia lui che mia madre erano rimasti vedovi per un certo periodo avevano anche pensato di sposarsi, era stata mia madre a non volerlo assolutamente.
La telefonata ha assunto i toni di una vera e propria lite e da qualche parola compresa qua e là, penso di esserci finito in mezzo pure io.
Le telefonate tra madre e figlia finiscono sempre nello stesso modo: Andrea si scoccia delle paturnie della figlia e alla fine ce la manda e le chiude il telefono in faccia.
«Ma che ho fatto di male per meritarmi una figlia simile, ma lo sai quanto era meglio se abortivo» risalendo la scaletta e poi mi guarda incazzata nera, «Ricordati sempre che sei stato tu a convincermi di non abortire. Neanche fossi stato suo padre, e questi sono i risultati».
«Ma perché che cosa è successo questa volta?».
Io lo sapevo a che cosa sarei andato incontro facendo questa domanda, ma sapevo anche che con qualcuno doveva pure sfogarsi.
«E’ successo che per l’ennesima volta si è lasciata con quell’idiota con cui convive. Io glielo detto cento volte che il carattere di una persona non lo cambi: quello così è e così te lo tieni se ti piace».
Dopo una ventina di minuti finalmente si calma:
«A me è venuta un po’ di fame», mi dice Andrea anche per troncare un discorso che evidentemente non le piace, «Perché non andiamo a Gozo per mangiare qualcosa e poi se ne abbiamo voglia rimaniamo a dormire qui senza tornare a Sliema».
La cosa mi fa molto piacere, Gozo è un luogo magico con la sue antiche città che mantengono ancora evidenti le presenze di tante civiltà che si sono avvicendate.
«A Mdina c’è una rosticceria che fa dei pastizzi che sono una cosa divina», le dico sapendo già che cosa avrebbe detto.
«Certo che sei una cosa incredibile», mi dice facendo una smorfia di raccapriccio, «Vai pazzo per tutte le cose più orrende di Malta, ma lo sai con quale olio li friggono?»
«Tranquilla! Stasera ci fermiamo al club e mangiamo lì, c’è un cuoco che fa dei piatti veramente particolari», la rassicuro.
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